«Io ho visto il fotogiornalismo da vicino e posso dire che è finito, morto, era morto già anni fa, quando Life ha chiuso. Come fai a usare le fotografie come informazione se non cambi qualcosa? Se continui a fotografare come Cartier-Bresson oggi fai solo intrattenimento».
Così si pronuncia Oliviero Toscani in un’intervista rilasciata a Michele Smargiassi e pubblicata sul numero del 24 agosto scorso de “il Venerdì” di Repubblica.
La provocazione non è gratuita e contiene, o almeno io ci leggo, alcune importanti questioni che non sono certo nuove nella comunità dei fotografi di professione. Ma apre anche uno spiraglio su riflessioni più scomode e meno condivise.
La diffusione di internet, dei social media e di smartphone con fotocamere in grado di produrre foto ad altissima definizione ha cambiato irreversibilmente il fotogiornalismo e la fotografia documentaria.
La crisi economica dell’editoria e dei giornali, la carenza di committenze e il consumo sempre più rapido di immagini hanno causato una drastica erosione dei compensi dei fotogiornalisti e influito sul loro modo di lavorare, plasmando l’estetica del fotogiornalismo attuale.
Eppure nessuno di questi cambiamenti significativi è riuscito a innescare un profondo rinnovamento culturale e creativo, né a cambiare il modo in cui l’occidente concepisce il fotogiornalismo e lo fruisce.
Non tutti i fotografi possono permettersi di passare mesi o anni su un progetto e per emergere, in un ambiente altamente competitivo, molti scelgono di rimanere nel solco di narrative tradizionali e collaudate e assecondare la richiesta dei media mainstream di immagini di facile impatto che drammatizzino al massimo un evento anziché raccontarlo in ogni suo aspetto.
Queste due attitudini si riscontrano a tutti i livelli e anche l’istituzione che detta il canone di eccellenza del fotogiornalismo mondiale, e che dovrebbe promuovere un codice etico basato sui valori di «accuratezza, diversità e trasparenza», negli ultimi anni è stata molto criticata per aver premiato immagini troppo stereotipate o sensazionalistiche.
Il World Press Photo è un’organizzazione no-profit che, oltre a premiare le migliori foto giornalistiche dell’anno, organizza progetti educativi e sostiene la fotografia professionale.
La foto vincitrice del 2018 è un’immagine bellissima che si presta a qualche considerazione sulla differenza tra una foto concettuale e una foto giornalistica.
Mostra un giovane uomo con il volto nascosto da una maschera antigas che corre mentre va a fuoco, alle sue spalle un muro di mattoni e un edificio in fiamme. La foto è stretta sul giovane, il movimento della corsa congelato amplifica il contrasto con la bellezza feroce delle fiamme che lo avvolgono. La maschera antigas, che ci impedisce di vedere il dolore che l’uomo sta provando, disumanizza il protagonista della foto, mina sottilmente la nostra empatia e rende lo scatto più simile a un’opera d’arte che a una foto giornalistica.
La didascalia ci dice il nome dell’uomo, José Victor Salazar Balza, e ci spiega che l’evento è accaduto durante gli scontri tra la polizia e i partecipanti a una manifestazione contro il governo di Nicolás Maduro, lo scorso 3 maggio a Caracas, in Venezuela.
Cosa ci permette di capire della terribile crisi venezuelana o dell’operato di Maduro questa foto?
L’incendio che colpisce Salazar Balza si è verificato accidentalmente per lo scoppio del serbatoio di una moto parcheggiata, un’occorrenza che avrebbe potuto verificarsi in qualunque parte del mondo durante uno scontro tra forze dell’ordine e manifestanti.
Il fotografo, venezuelano ma residente in Messico, Ronaldo Schmeidt, ha di certo avuto la bravura e la freddezza necessarie per scattare un’immagine perfettamente composta e ossessionante. Ha, per dirla con Henri Cartier-Bresson, colto il «momento decisivo».
Cercando online notizie su José Victor Salazar Balza leggo che è sopravvissuto, ha riportato ustioni sul 70% del corpo, ha subito 42 operazioni di innesti dermici e non ha voluto rilasciare dichiarazioni sul suo ritratto che ha fatto il giro del mondo.
Il rapporto tra forma e contenuto in un mezzo di espressione visiva che ha, come nel caso del fotogiornalismo, la pretesa di farsi testimone del proprio tempo, è sempre stato problematico.
La giuria del World Press Photo cambia ogni anno ed è ovvio che le sue scelte accendano sempre dibattiti o attirino critiche, ma la tendenza estetizzante riemerge spesso, così come quella a premiare solo un certo tipo di visione.
Analizzando gli ultimi cinque anni del concorso, si nota che su 46 foto premiate annualmente quelle prodotte da fotografi occidentali sono sempre all’incirca la metà. Ma aggiungendo anche i fotografi russi e dell’est Europa, i premiati di paesi non occidentali o extra europei sono in media 12 all’anno. Nonostante la partecipazione annuale di fotografi di circa 125 nazionalità diverse.
Non ci è dato sapere quante delle circa 80.000 foto in gara in ogni edizione siano state scattate da donne, ma il numero delle fotografe premiate tra il 2013 e il 2018 è stato in media di 8 all’anno.
Dalle cifre sopra indicate ci si potrebbe aspettare che le foto vincitrici raccontino e rappresentino soprattutto i paesi da cui provengono i loro autori.
Questo in effetti si verifica per i fotografi non occidentali, che vengono premiati esclusivamente per foto che rappresentano il loro paese o la loro macro area geografica di appartenenza. Nei cinque anni da me analizzati non è stato mai premiato, tanto per fare un esempio, un fotografo africano per un reportage sulla Svezia. Anche perché non sempre è possibile per un giornalista non occidentale ottenere un visto per viaggiare e svolgere la sua attività professionale in occidente, come racconta questo articolo di Hostwriter.
Le foto premiate che raccontano l’occidente sono in media 8 all’anno. E si tratta soprattutto di storie realizzate da fotografi americani o da fotografi russi ed est europei sul proprio paese di provenienza.
Ci sono pochissimi fotografi dell’Europa occidentale premiati per aver raccontato le loro realtà, e in alcuni casi le loro foto riguardano comunque migranti extraeuropei.
Curiosamente, le più attente a quello che succede a casa propria, o nelle immediate vicinanze, sono le donne.
Pur non essendo esaustiva, credo che la mia analisi possa essere considerata abbastanza indicativa. Difficilmente chi opera nel settore dell’informazione potrà negare quanto siamo ancora legati al mito romantico del reporter che va a esplorare con la sua macchina fotografica paesi lontani o ci mostra conflitti che ricevono poca attenzione.
Non intendo sminuire il lavoro di tanti professionisti seri, né contestare il fascino della scoperta e della conoscenza di luoghi diversi, solo rilevare uno squilibrio.
Guardiamo il mondo prevalentemente attraverso gli occhi di maschi bianchi occidentali e forse sarebbe ora di cercare anche altri punti di vista.
Molti critici e teorici hanno notato come la fotografia sia, fin dalle sue origini, un’espressione di potere.
«Scattare una fotografia è proclamare una superiorità, anche solo economica e tecnologica, e il fotografo documentarista parte dall’intrinseco presupposto che il proprio soggetto non può (o non ha i mezzi per) farlo da sé» scrive il linguista Clive Scott.
Le discussioni etiche all’interno della comunità dei professionisti riguardano soprattutto l’alterazione delle immagini in fase di post produzione o la pratica di rimettere in scena un evento che non si è riusciti a fotografare come si sarebbe voluto. Molto meno come gestire il potere intrinseco dato dall’atto del fotografare.
Decolonizzare la rappresentazione è la richiesta che viene da molti fotografi, giornalisti e studiosi non occidentali e appartenenti a minoranze etniche.
A loro si aggiungono i professionisti occidentali interessati alla dimensione morale dell’immagine documentaria in un momento storico in cui la coesistenza sempre più pervasiva di vero, falso e verosimile rende difficile, per molte persone, prestare fede a un racconto.
Dire che un’immagine vale più di mille parole è ovviamente una forzatura. Ma vedere sempre lo stesso tipo di immagini cambia la nostra mentalità e ci condiziona più di quanto immaginiamo.
Ne hanno fatto diretta esperienza il fotografo Peter Di Campo e il giornalista Austin Merrill, entrambi statunitensi, documentando nel 2012 la guerra civile appena terminata in Costa d’Avorio.
Mentre lavoravano alla loro storia sui rifugiati utilizzando i mezzi del giornalismo e del fotogiornalismo tradizionali, si accorsero che entrambi stavano sviluppando casualmente un racconto molto diverso semplicemente scattando foto di vita quotidiana con i loro iphone.
Pubblicarono quelle immagini su un tumblr e furono presto contattati da altri colleghi che si erano accorti di quanta distanza ci fosse tra l’immagine stereotipata dei paesi africani a cui erano abituati e la realtà della vita quotidiana. Nacque così @everydayafrica: una comunità di fotografi di diverse nazionalità – africani inclusi – che cominciarono a servirsi di Instagram per raccontare fuori dagli schemi e dai circuiti tradizionali una realtà complessa e poco conosciuta.
Il successo dell’iniziativa ha portato alla nascita di molti altri feed che condividono lo stesso spirito e mirano a costruire rappresentazioni collettive e condivise di aree geografiche o di comunità.
Alcuni esempi: @everydaybronx, @everydayiran, @everydayafghanistan, @everydaylatinamerica, @everydaymumbai, @everydaymigration, @everydayincarceration.
Lo scorso agosto BRIGHT magazine e Re-Picture (la pubblicazione degli Everyday Projects) hanno lanciato su Twitter una discussione con l’hashtag #InclusivePhotography.
Nell’articolo che riassume il dibattito online la fotogiornalista Danielle Villasana nota che «gli esseri umani sono naturalmente attratti da ciò che è loro più famigliare, che è il motivo per cui dobbiamo diversificare il modo in cui produciamo la comunicazione. Dobbiamo riconoscere un valore anche alla quotidianità e non concentrarci sempre sugli aspetti sensazionalistici della realtà».
Concentrarsi su cosa ci accomuna come esseri umani ridurrebbe il rischio di avere uno sguardo colonialistico o paternalistico.
Nonostante questi e altri progetti mirati a offrire punti di vista alternativi, è ancora difficile per il grande pubblico beneficiare di nuove prospettive e non sempre le media company occidentali, che continuano a esercitare controllo ed egemonia sull’informazione globale, sono aperte allo scambio e alla contaminazione.
Le fotografie che illustrano questo post (tranne quella del libro su Eugene Smith) sono in pubblico dominio, possono quindi essere utilizzate liberamente da chiunque. Tutte ci dicono qualcosa su come siamo stati abituati a guardare il mondo.
Francis Frith fu il primo fotografo a intraprendere il business delle foto di viaggio. Notando come i turisti fossero i maggiori acquirenti di foto dell’Italia, capì che coloro che non potevano permettersi di viaggiare erano interessati ad acquistare foto che costituissero una fedele testimonianza della vita in luoghi lontani.
Caroline Haskins Gurrey è stata una fotografa americana che si trasferì alle Hawaii all’inizio del ventesimo secolo e aprì uno studio fotografico di ritrattistica. E’ conosciuta per i ritratti etnografici dei giovani hawaiani nati da genitori nativi o da matrimoni misti.
Charles Milton Bell iniziò a lavorare nello studio fotografico di famiglia a Washington a diciannove anni. Ritrasse molti personaggi di rilievo e viene ricordato per i suoi ieratici ritratti di nativi americani.
Gordon Parks è stato il primo fotografo afroamericano nella redazione della mitica rivista “Life”, negli anni quaranta usò la sua macchina fotografica “come un’arma” per denunciare la segregazione razziale e il razzismo. In seguito divenne il primo regista afroamericano a girare un film per una major hollywoodiana.
Marina Cotugno CC BY-NC-SA 3.0 IT