“C’è una legge non scritta nel mondo della fotografia, e dell’arte in generale, che vorrebbe che le donne non fossero, tecnicamente parlando, voyeur – ma oggetto di voyeurismo”. Così scrive il critico americano Hilton Als in un articolo sulla fotografa Nan Goldin.
La mostra “L’Altro sguardo. Fotografe italiane 1965-2018” in corso al Palazzo delle Esposizioni a Roma (fino al 2 settembre) ha appunto l’ambizione di far conoscere le opere delle donne italiane dietro all’obbiettivo.
Le immagini esposte provengono dalla collezione di Donata Pizzi, a sua volta fotografa, che ha iniziato a raccoglierle con lo scopo di riflettere su come le autrici italiane abbiano usato la fotografia in un’ottica femminista e di come nel corso degli anni sia cambiato il linguaggio fotografico.
La tesi di Pizzi è che sia avvenuto, nel tempo di tre generazioni, un passaggio dalla fotografia sociale e di reportage alla fotografia concettuale.
Da questo spunto si muove la curatrice, Raffaella Perna, per esporre le oltre duecento foto in mostra, divise in quattro sezioni tematiche dedicate a denuncia sociale, femminismo, identità e relazione ed esplorazione del mezzo espressivo.
Non è compito facile organizzare in modo comprensibile e accattivante opere accomunate prevalentemente dalla sensibilità di qualcun altro, per di più lavorando con denominatori comuni ampi come un arco temporale di cinquant’anni, il mezzo espressivo scelto e il genere delle autrici.
E benché vi sia una certa coerenza di fondo, nelle quattro sezioni e nel criterio selettivo della collezionista, la mostra lascia lo spettatore (o quanto meno ha lasciato chi scrive) inappagato. Come un appetitoso antipasto preludio di un pasto che non inizia mai.
La causa principale di questa insoddisfazione sta nella scarsità di informazioni fornite, affidate esclusivamente ai brevi pannelli che illustrano ciascuna sezione, alle didascalie delle foto e al catalogo consultabile in un ambiente di passaggio.
E’ quindi impossibile per lo spettatore conoscere i progetti da cui sono tratte le opere esposte o ricostruire il percorso umano e professionale di ciascuna autrice mentre visita la mostra.
Alcune di loro sono fotogiornaliste, testimoni di storie e realtà del proprio tempo.
Come Carla Cerati, la prima fotografa (insieme a Gianni Berengo Gardin) a poter entrare negli ospedali psichiatrici italiani per realizzare il volume Morire di classe (1969) a cura di Franco e Franca Basaglia.
O Lisetta Carmi che nel 1972 pubblicò un libro, I travestiti, sulla comunità di via del Campo a Genova, che molti librai rifiutarono di mettere in vetrina.
O Letizia Battaglia e sua figlia Shobha, Giovanna Borgese, Liliana Barchiesi e Lina Pallotta.
Alcune altre invece hanno usato la fotografia solo per un periodo o come uno dei possibili mezzi espressivi.
E’ il caso di Agnese De Donato, di cui sono esposti i divertenti scatti “Chi era costui? Assolutamente nessuno” e che è stata giornalista, co-fondatrice di “Effe” – la prima rivista femminista italiana – e animatrice del circolo artistico che si ritrovava nella sua libreria romana: il “Ferro di cavallo”.
O Tomaso Binga, alter ego di Bianca Pucciarelli, che ha messo il linguaggio al centro della propria esperienza artistica, utilizzando uno pseudonimo proprio per denunciare i privilegi maschili nel mondo dell’arte e che qui appare in un doppio ritratto: “Bianca Menna e Tomaso Binga Oggi Spose” (1977) in cui utilizza in chiave ironica il cognome del marito, il critico Filiberto Menna.
Betty Bee che gioca a confondere le identità ritraendosi come transessuale e artiste che riflettono sulla storia e sulla costruzione dell’identità femminile come Nicole Gravier e Marcella Campagnano.
In alcuni casi sarebbe davvero utile avere in mostra materiale aggiuntivo. Ad esempio per contestualizzare le immagini tratte dal libro Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo, pubblicato nel 1978, e nato spontaneamente dagli incontri di un gruppo di artiste e amiche (Bundi Alberti, Diana Bond, Mercedes Cuman, Paola Mattioli, Adriana Monti, Esperanza Núñez e Silvia Truppi) che dialogano tra loro in lavori collettivi e individuali, non solo fotografici, sulla possibilità di essere contemporaneamente soggetto e oggetto di rappresentazione.
E infine ci sono autrici più giovani, che riprendono e proseguono il discorso sull’identità femminile riflettendo anche sulle esperienze di chi le ha precedute, in campo artistico e non.
Le fotografe Anna Di Prospero e Simona Ghizzoni o artiste come Moira Ricci, che espone vecchie foto di famiglia e crea fotomontaggi che raccontano la sua infanzia e gli immaginari che l’hanno influenzata e Sara Rossi, le cui foto di insegne disseminate nel paesaggio urbano come objets trouvés farebbero il pieno di cuoricini su Instagram.
Molti nomi di autrici finora citate (e delle molte altre in mostra) non sono noti al di fuori del circuito degli esperti e degli appassionati, e anche trovare notizie su internet non è sempre facile, a riprova di quanto un mezzo così popolare e democratico come la fotografia abbia una storia e dei protagonisti – soprattutto se donne – spesso poco conosciuti.
Ed è proprio per questo che l'”Altro sguardo” non convince pienamente. Perché pur in un contesto di grande visibilità mediatica non fornisce allo spettatore gli strumenti adatti per conoscere e riconoscere la ricchezza e l’alterità dello sguardo femminile nell’ambito della fotografia italiana e internazionale.
Marina Cotugno CC BY-NC-SA 3.0 IT