Una foto vale più di mille storie
Nelle mie quotidiane esplorazioni alla ricerca di materiali visivi accessibili o in pubblico dominio mi sono imbattuta in una meravigliosa collezione di fotografie vernacolari a disposizione in altissima risoluzione sul sito del Saint Louis Art Museum.
L’espressione fotografia vernacolare è la goffa traduzione italiana del termine inglese vernacular photography e si riferisce alle fotografie di persone comuni e avvenimenti quotidiani, come foto di famiglia o di vacanze, istantanee scattate tra amici, ritratti di adulti bambini o animali, che hanno un’involontaria qualità artistica e possono essere considerati tanto arte accidentale quanto testimonianza storica.
Per loro natura le foto vernacolari sono quasi sempre foto di sconosciuti, vendute in negozi o mercatini dell’usato, ritrovate nelle cantine o recuperate dalla spazzatura. Il loro stile casuale e popolare e la loro poetica di objects trouvés sono stati fonte d’ispirazione per fotografi come Walker Evans e Martin Parr e sono spesso alla base di pratiche artistiche che indagano l’immaginario collettivo o ad analizzano sentimenti e dinamiche umane.
La passione contemporanea per le foto trovate e la vernacular photography ha di recente contribuito alla creazione del redditizio mito di Vivian Maier, la bambinaia americana con l’hobby della fotografia, che nel corso di una vita anonima e solitaria ha ossessivamente scattato migliaia di fotografie, molte delle quali non sono mai state nemmeno sviluppate e stampate mentre era in vita.
Come nota la la critica americana Abigail Solomon-Godeau, il fatto che le foto trovate siano analogiche accresce ai nostri occhi, ormai abituati al digitale, il loro fascino. Hanno un’aura per tornare al concetto caro al filosofo tedesco Walter Benjamin, l’insuperato teorico della riproducibilità meccanica delle opere d’arte.
Di queste foto si è perso il negativo, la matrice che di norma ne assicura l’infinita riproducibilità e che le mantiene sempre in bilico tra l’opera d’arte e l’oggetto industriale riproducibile in serie. L’essere orfane le rende uniche e se non raggiungono lo status di opera d’arte, accedono senza sforzo a quello di alto artigianato.
Ma, a mio parere, il loro più grande fascino sta nell’essere mute.
Il famoso, stucchevole e falso detto secondo cui un’immagine vale più di mille parole, si basa sul presupposto che un’immagine abbia un’immediata capacità di comunicare. Ma questo è un pericoloso equivoco. Neanche conoscendo il contesto in cui una foto viene scattata, ad esempio un evento di attualità, possiamo mai ricostruire per certo quello che vediamo senza l’aiuto della didascalia. E gli errori o la perdita della didascalia originaria hanno a volte offuscato la fortuna di immagini iconiche, come il famigerato miliziano di Robert Capa.
Il fascino delle foto trovate sta quindi nel mistero che nascondono, nella possibilità che offrono allo spettatore di inventare mille storie diverse per ciascuna di loro.
Tornando alle foto trovate del Saint Louis Art Museum si può immaginare che siano state selezionate accuratamente dai curatori del museo. Il fatto che queste immagini non abbiano autori certi ha impedito di considerarle in pubblico dominio, bisogna quindi contattare il museo nel caso in cui si voglia farne un utilizzo commerciale.
Marina Cotugno CC BY-NC-SA 3.0 IT
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