Una settimana dopo l’11 settembre 2001, la photo editor e curatrice Alice Rose George fu contattata dal suo amico Michael Shulan e da Gilles Peress, fotografo e membro dell’agenzia Magnum, per dare vita a un originale progetto fotografico.
Tutti e tre erano rimasti colpiti dal fatto che la maggior parte degli abitanti di New York avesse passato gli ultimi terribili giorni scattando fotografie.
Shulan aveva un locale commerciale sfitto a Soho e lo mise a disposizione per ospitare una singolare mostra, o meglio, un’esperienza di condivisione di immagini, che sfidò per alcune settimane la teoria semiologica sulla fotografia e costituì per i newyorchesi un evento catartico e di raccoglimento della comunità attorno alla memoria in costruzione.
George e Peress invitarono i fotografi professionisti che conoscevano a dar loro delle immagini dell’attacco terroristico al World Trade Center da esporre, poi invitarono chiunque avesse delle fotografie da mostrare a portarle nell’improvvisata galleria.
Fin dal primo giorno le persone fecero la fila per lasciare le proprie foto e per vedere quelle degli altri.
Le immagini raccolte alla fine furono migliaia di migliaia, quindi gli organizzatori furono costretti a scegliere cosa esporre, eliminando le foto meno significative, ma senza cercare nessuna particolare qualità artistica in quelle selezionate. Solo la capacità di narrare una storia.
Tutte le immagini furono tagliate con le stesse dimensioni, stampate e appese a dei fili per stendere il bucato. Quelle di fotografi vincitori di premi accanto a quelle di comuni cittadini di ogni età, anonime e senza didascalia.
Con grande incisività la mostra venne intitolata here is new york. a democracy of photographs.
Gli eventi straordinari dimostrarono più di un trattato come, in alcuni casi, le fotografie prodotte da persone senza particolare preparazione tecnica né alcuna nozione teorica possano competere con le immagini realizzate dai professionisti.
Nessuna fotografia basta a se stessa. Se non ci sono parole a spiegarla, non siamo in grado di attribuirle significato. Su questo concordano tutti i critici del mezzo espressivo, partendo dalla famosa definizione di Roland Barthes per cui la fotografia è un «messaggio senza codice».
Nel caso di here is new york questa constatazione fu superata dalle circostanze. Tutti i visitatori potevano attribuire un significato esatto alle fotografie esposte, potevano riconoscere i luoghi e talvolta le persone rappresentati e le emozioni che provavano erano inevitabilmente le stesse.
Solo il trauma può sospendere il linguaggio, scrive Barthes in Il messaggio fotografico. Ovviamente siamo in grado di riconoscere una situazione traumatica quando la vediamo rappresentata in una foto, ma allora la retorica con cui l’immagine è costruita ce la rende lontana; il trauma viene placato e sublimato.
«Le fotografie veramente traumatiche sono rare perché, in fotografia, il trauma dipende totalmente dalla certezza che la scena abbia realmente avuto luogo; bisogna che il fotografo fosse là. […] L’effetto mitologico di una fotografia è inversamente proporzionale al suo effetto traumatico».
Le foto di here is new york, nei giorni in cui sono state esposte, per le persone che le hanno viste e che, in molti casi, le hanno anche prodotte, sono state un trauma e una risposta al trauma.
Le foto vennero anche vendute, tutte allo stesso prezzo (25 dollari) e tutte stampate allo stesso modo con una stampante a getto d’inchiostro, sempre anonime.
L’enfasi sulla democraticità dell’esperienza non riguarda, a mio parere, solo l’aspetto dell’autorialità e del valore che comunemente le attribuiamo, ma anche la possibilità di vedere che non sempre ci viene garantita.
In quelle settimane tutti i mezzi di comunicazione mondiali pubblicarono e trasmisero foto di quello che era successo a New York. L’imprevedibilità dell’attacco terroristico ha fatto sì che i media siano stati costretti a usare filmati e foto amatoriali per coprire la storia, almeno nelle sue fasi iniziali. Ma, in ogni caso, furono le redazioni a scegliere cosa mostrare al pubblico, anche rispetto alla crudezza delle immagini.
Meno filtri furono applicati nella mostra, e la quantità incredibile di fotografie poté sicuramente garantire una rappresentazione più complessa e completa dell’accaduto.
Il sito del progetto here is new york è ancora online ma non funziona più dal 2003, un’ampia selezione di immagini è stata pubblicata in un libro omonimo (864 pagine) e altre mostre sono state allestite a New York e in molte altre città del mondo negli anni successivi con una parte del materiale della mostra originale.
Gli anni passati dall’11 settembre 2001 hanno ormai reso mitologiche le foto traumatiche e l’uso delle didascalie per costruire il significato è tornato indispensabile, anche per chi allora era lì.
Marina Cotugno CC BY-NC-SA 3.0 IT